La forte atleta della Gabbi Bologna ha partecipato a 5 edizioni, piazzandosi sempre nelle primissime posizioni. Quest’anno è salita sul terzo gradino del podio, alle spalle di Gloria Marconi e Mara Fornasari. Il legame con la manifestazione organizzata dalla Polisportiva Europa è forte, così come l’amore per l’arcipelago eoliano. Le sue parole dipingono un quadro appassionante di quello che è per lei la settimana del “Giro”.
Ha partecipato a cinque edizione del “Giro Podistico a Tappe delle Isole Eolie” l’emiliana Valentina Gualandi della Gabbi Bologna, piazzandosi sempre nelle primissime posizioni. Quest’anno è salita meritatamente sul terzo gradino del podio, alle spalle di Gloria Marconi e Mara Fornasari. Il legame con la manifestazione organizzata dalla Polisportiva Europa Messina è forte, così come l’amore per l’arcipelago eoliano. Le sue parole dipingono un quadro emozionante di quello che è per lei la settimana del “Giro”.
“È qui che tutto ebbe inizio, quando tutto doveva ancora iniziare. Da Vulcanello alla caserma dei Carabinieri e ritorno, di corsa, senza alcuna cognizione di ritmi, medie o andature. Era il 1999. Il giro podistico a tappe non esisteva ancora, né sussisteva in me il benché minimo spirito di competizione. Le Eolie erano solo vacanza, e le vacanze finiscono in archivio, come cartoline: l’inverno le sbiadisce, e l’estate successiva si cercano nuovi paesaggi. A volte. Perché può succedere che, da quell’archivio, i ricordi riprendano forma e tornino a vivere: li si può percepire, coglierne i colori, sentirne gli odori. Certi luoghi ti restano dentro, diventano parte di te: quando meno te lo aspetti, ne avverti il richiamo. Allora non c’è nulla da fare, tutto ciò che ti circonda sembra evocare quei posti e tu devi arrenderti all’evidenza: è là che devi andare.
Nove anni dopo, torno alle Eolie: per correre. Ora che la corsa è diventata un impegno importante, che il demone della competizione si è impossessato della mia anima, non posso che assecondare tale spirito, nutrendolo con lo zolfo di Vulcano. Zolfo. Amo questo odore. E questi fumi che sbottano dalle rocce, dalla terra, dal mare. L’isola non concede mezze misure: o ti respinge o ti rapisce – una volta e per sempre. Ma adesso non devo farmi distrarre dalle sue armi di seduzione: ora è la gara ad avere la priorità. Una corsa a tappe per me è un’assoluta novità: si ha un bel da dire che siamo qui soprattutto per divertirci. Resta il fatto che ogni giorno è una sfida, e ignoro quali possano essere le conseguenze sui miei muscoli e, soprattutto, sui miei nervi. Cinque giorni ad alta tensione, sempre aggrappata alla terza donna, per concludere ai piedi del podio. Soddisfatta? Abbastanza. Tornerei? Non lo so. Forse questo genere di eventi non fa per me: introversa e sensibile come sono, subisco eccessivamente l’aspetto competitivo, a discapito di quello vacanziero. Forse.
È sufficiente un cielo nebbioso per fare riemergere spiriti e demoni: quelli che agitano la memoria e rianimano i desideri, quelli che muovono la vitalità e rigenerano le ambizioni. Non avverti anche tu un ché di sulfureo? Vulcano ci chiama. Lo so, dicevo che una volta era bastata. Ma se ne dicono di cose… Non so se sia più forte la voglia di rimettermi in gioco, o quella di immergermi nuovamente in quel tripudio di luci, profumi, sapori. L’emozione è talmente forte che stordisce: sbarcare e sentirsi a casa. Questa è la nostra dimensione ideale, qui riusciamo a sentirci vivi e vitali. Ora si tratta di far sì che una simile energia si manifesti anche in gara: guai a perdere di vista l’obiettivo principale. Sono trascorsi due anni dalla prima esperienza, i percorsi li ricordo ancora bene: ora conosco le insidie e so come affrontare le difficoltà, ora so come gestirmi, dove difendermi e dove attaccare, ora mi sento forte e sicura. Non ho però fatto i conti con le avversarie: sono loro ad essere straordinariamente forti o sono io ad avere sopravvalutato le mie potenzialità? Spasimo nella prima tappa, il circuito di Vulcanello; arranco nella seconda, sulla salita da Acquacalda a Canneto; va meglio a Salina, ma sono di nuovo in affanno nel turbinio di Lipari, per poi lasciarmi andare nella magnifica discesa finale a Vulcano. Ma ormai la mia posizione è irrilevante: le ambizioni che avevo messo in valigia si sono squagliate al primo sole. Nonostante tutto, già penso al prossimo anno.
È così che funziona: si aspetta l’aliscafo per il ritorno con un groppo alla gola, non c’è partenza più triste. Perché dobbiamo andarcene? Perché non riusciamo a trovare il modo per vivere per sempre su quest’isola? E neppure sappiamo se potremo tornare… I primi giorni, a casa, non si fa che rimuginare su “cosa starei facendo là a quest’ora”, quelli successivi non si fa che rievocare i momenti vissuti; finché non si comincia a curiosare sul web, alla ricerca delle combinazioni di viaggio più convenienti. In sintesi: si vive tutto l’anno in funzione del Giro delle Eolie. E magari si rinuncia a mille altre cose, pur di esserci ancora. È sempre un azzardo, contro ogni logica, oltre qualsiasi senso della ragione.
Quale persona equilibrata si situerebbe infatti sulla linea di partenza con una gamba infortunata e un gomito appesantito da una fasciatura che protegge cinque punti di sutura, applicati appena due giorni prima? Ma Vulcano ha chiamato e io, tutta rotta, niente affatto allenata, mi affido a lui. Due anni prima, quando ero discretamente in forma, arrancai su tutte le salite, addirittura fermandomi in molti tratti. Ora devo solo sopravvivere perché, comunque vada, ciò che conta è essere qui. Azzerare le aspettative può essere di grande aiuto: correre spensierati in un simile contesto è già in sé un piccolo miracolo. La quarta posizione non era contemplata nemmeno nel più roseo dei miei sogni, me la godo tappa dopo tappa: il muro che sale a Vulcanello non mi sembra neppure tanto duro; il paesaggio lunare tra le cave di Lipari mi manda in trance; sui tornanti di Salina ho tutto sotto controllo; gestisco magistralmente le insidie del circuito cittadino, nel centro di Lipari; quindi cerco di non annegare nell’ultima prova, corsa su viali ridotti in torrenti dal diluvio scatenatosi a pochi minuti dal via. Nel pomeriggio, quasi a chiederci scusa, Vulcano ci regala una luce calda e trasparente, e un panorama struggente: viste dall’alto, le isole sono così vicine che sembra di poterle toccare. Mi trovo esattamente dove vorrei essere, dove vorrei restare. Dove è cominciato tutto…
Da allora non ho mancato un anno: sempre col dubbio fino all’ultimo momento, sempre facendo i salti mortali, sempre con una buona dose di incoscienza. È qualcosa di più forte di me: più forte di noi. Io, che vivo in funzione della corsa e non posso concepire una vacanza di solo relax; lui, che per primo ha scoperto questo arcipelago, e che per primo ne è stato rapito. Quale binomio potrebbe essere più armonico? E sarà pur vero che le gare a tappe non fanno per me, che soffro eccessivamente la tensione agonistica, che non sono abile a gestire le mie risorse. È però altrettanto vero che tutti i concorrenti, qui, sono affetti dalla medesima malattia – chi più chi meno: parliamo solo di corsa, ci arrovelliamo per una posizione, studiamo all’infinito risultati e classifiche. Poi ci sdraiamo sulle sabbie nere ed entriamo in un’altra dimensione. Per quanti circuiti podistici possano esistere, nessuno è incastonato in una cornice tanto perfetta”. di Valentina Gualandi